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La Dipendenza Mascherata: un fantasma che ama nascondersi

La Dipendenza Mascherata: un fantasma che ama nascondersi | Dipendiamo.blog

Conoscersi, piacersi, unirsi: siamo sicuri che stiamo intraprendendo una relazione con una persona reale? O non stiamo piuttosto andando incontro ai nostri fantasmi interiori? Capirlo è importante, perché altrimenti quello che pensiamo essere un comportamento “normale”, in realtà è una dipendenza mascherata, che non sempre è facilmente riconoscibile.

La Dipendenza Mascherata

La persona che tanto ci attira (il partner, un’amica, un collega di lavoro) e poco alla volta, o forse anche in fretta, diventa indispensabile, al punto che non possiamo fare più a meno della sua opinione, della sua approvazione, della sua vicinanza fisica, della sua esistenza nella nostra vita…  questa persona è vera? Possibile che sia così perfetta, che abbia tutte le risposte?

Se dentro di noi sentiamo queste parole: “sì, è lui/lei, lo so, lo sento, non potrò più farne a meno, ma come ho potuto stare senza di lui/lei finora?” e pendiamo dalle sue labbra, e giustifichiamo ogni sua mancanza, ecco: allora, è molto probabile che siamo di fronte non a un essere umano, ma al nostro fantasma interiore, che ha inglobato quella persona, come una muta farebbe col sub.

Mi capita spesso di incontrare persone che vivono un momento di Dipendenza Affettiva molto ben mascherata.

Ad ognuno la sua dipendenza (mascherata)

Vi racconto questa, che mi vede coinvolta in prima persona. Tempo fa, frequentavo un gruppo teatrale di sole donne: donna la regista, donne le attrici, tutte giovani intorno ai 30 anni, me compresa. Ebbene, in questo ambiente all’apparenza così libero dal rischio di dipendenza, si sono scatenati mille fantasmi reciproci, in un gioco di ripicche affettive sempre più intricato, che alla fine ha fatto collassare la compagnia e, con essa, il lavoro comune.

State a sentire.

Tizia e Caia, arrivate insieme nel gruppo, amiche strette da tempo, hanno visto il loro legame minacciato da Sempronia, membro di vecchia data della compagnia, che poco alla volta si è legata a Caia in maniera morbosa e troppo evidente perché potesse essere ignorata. Sempronia, infatti, instaurava una comunicazione personale diretta e serrata con Caia, la quale si lasciava affascinare dall’esperienza dell’altra e la vedeva sempre più non solo come una collega navigata alla quale fare riferimento, ma quasi come una mamma.

La regista, dal canto suo, da sempre al centro delle attenzioni, ha subìto un drastico calo della popolarità nel momento in cui Augusta ha iniziato a comportarsi anche lei “da mamma” con le altre, consigliandole sugli esercizi da svolgere e sulle tecniche migliori per fare questo e quello.

Perché lo faceva? Per mancanza di autostima, che la portava a ricercare appositamente quella popolarità, in sé, come se fosse un valore; certo, il suo comportamento da dipendente era molto sotterraneo, camuffato da interesse a sviluppare le potenzialità teatrali del gruppo, ma in realtà…

Insomma, e io? Potevo mica restarne fuori: facevo concorrenza a tutte, volendo essere la migliore, la più ligia al dovere, la più puntuale, quella che sapeva sempre le battute (anche le parti delle altre), quella su cui la regista, in calo di popolarità, avrebbe potuto sempre contare.

Ecco: mi ero presa la dipendenza mascherata della “spalla su cui piangere”.

E come mai? Perché volevo sentirmi indispensabile, volevo avere un ruolo di rilievo. Attenzione: non un ruolo sulla scena, ma un ruolo nella vita.

Alla fine, come potete immaginare, un nonnulla ha scatenato il litigio generale, un litigio pieno di sottintesi, di frecciate, velenosissimo come solo noi donne siamo in grado di fare, che ha sciolto il gruppo.

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Peccato, perché i risultati artistici erano davvero notevoli.

La Dipendenza: un “incontro mancato”

Per tornare alla necessità di sentirsi indispensabili, che ho provato direttamente in quella occasione, posso dire che è stato uno dei momenti di maggiore distanza dall’altro, inteso come altra persona, l’altro-da-me, che io abbia vissuto. É stato, per dirla con le parole di Jacob Levi Moreno, fondatore dello psicodramma, un “incontro mancato”.

Moreno parla di “religione dell’incontro”, intendendo con ciò la sacralità del momento in cui due persone si attraggono e si aprono vicendevolmente alla possibilità di “contaminazione” reciproca, cioè di crescita.

Questa opportunità di crescita è reale solo se lo spazio “tra” i due individui viene percepito allo stesso modo da entrambi, cioè come un palco su cui mettere in scena un dialogo in cui nessuno dei due vince, nessuno prevarica o soccombe, nessuno impone o subisce, ma tutti e due si lasciano attraversare, progressivamente e cautamente, dalla verità soggettiva dell’altro.

In quel momento di conoscenza reciproca, ecco che Io incontra Tu, e si creano i presupposti per il Noi.

La relazione di dipendenza è invece un fronteggiarsi di Io e Ciò: Io non conoscerà mai Ciò, perché questi non ha dignità sua propria, in quanto vive grazie alla proiezione dei fantasmi interiori di Io.

Io ha sofferto, e molto, in passato. Ha dentro di sé il ricordo doloroso e lacerante di quella sofferenza. Questo ricordo esce dal suo petto e si plasma sulla persona dell’altro, che diventa, così, Ciò. Tra Io e Ciò vive non la realtà dell’incontro, ma il fantasma della proiezione.

Nella storia che vi ho raccontato, il mio Io trattava la regista come un Ciò: qualcuno che aveva bisogno costante del mio appoggio, qualcuno che non poteva fare a meno di me e che per questo non mi avrebbe mai abbandonata; le ero necessaria a colmare i suoi vuoti, quindi le ero indispensabile. Come vedete, anche nelle relazioni di lavoro può annidarsi la dipendenza affettiva…

Tuttavia, e qui passiamo alle buone notizie, questo Io ferito può imparare a incontrare veramente l’altro, senza farne un Ciò indispensabile come l’aria che si respira, e può farlo senza soffrire. Anzi: imparare a incontrare l’altro è fonte di gioia, di pienezza, di guarigione, poiché nell’incontro chi ha dignità è non solo l’altro, ma anche Io. Io vale esattamente quanto l’altro. Altrimenti, non c’è incontro.

Il Teatro e il Psicodramma: la possibilità di incontrare realmente l’altro

Il teatro e i metodi attivi ispirati allo psicodramma classico mettono le persone in una situazione extraquotidiana, in cui gli schemi di comportamento appresi e gli automatismi non valgono più, perché l’unico modo per farsi capire e per cooperare è ascoltare ciò che accade e intervenire in maniera creativa, vale a dire nuova, inedita, non stereotipata e adatta alla situazione, unica e irripetibile, che si sta vivendo in quel momento.

In uno spazio protetto e non giudicante, possiamo aprire il nostro cuore alla possibilità di incontrare realmente l’altro, sentendo il benefico tocco del gruppo, condividendo attività ora leggere, ora più impegnative, sempre dinamiche e coinvolgenti, che ci mostrano un nuovo modo di sentire la relazione: un modo vero, libero dalla menzogna delle nostre paure.

Quando torneremo nel quotidiano, la nostra anima avrà sperimentato la magia del vero incontro e ci saprà guidare nelle nostre relazioni, dicendoci chiaramente quali siano quelle da modificare, quelle da interrompere, quelle da intraprendere, affinché ognuna di esse abbia la giusta collocazione nella nostra vita.

E noi, con l’infinita pazienza che una mamma (una vera mamma, non il suo fantasma!) ha verso il proprio piccolo, ci educheremo poco alla volta a comportarci in modo coerente con ciò che il nostro cuore ci suggerisce, al di là del ricordo della sofferenza.

Categorie: Arte e Terapia
Donatella Lessio: Conduttore di gruppi con metodi attivi, artista, psicodrammatista, formatore, e regista. Tengo corsi di teatro e danza dedicandomi in particolare alla zona di intersezione tra l’espressione di sé e la creazione di spettacoli fruibili dal pubblico. Ognuno di noi ha un copione speciale e unico da mettere in scena sul palco della vita: l’affascinante viaggio della nostra personalità attraverso l’esistenza. www.donatellalessio.com
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